“Illocale”

C’era pure stato quel tempo in cui aveva un senso dire “Stasera andiamo all’Embassy”: non certo quando vi facevano tappa fissa i meglio fichi del bigoncio dello spettacolo, dai cantanti ai presentatori passando per i futuri presidenti del consiglio; e nemmeno negli ultimi anni, da quando cioè gli hanno fatto piazza pulita attorno, seppellendolo sotto un cumulo di teloni e impalcature in modo tale da indurre a chiederti se alla fine dei lavori sarai in grado di riconoscerlo o meno. Mi riferisco a una via di mezzo tra le due epoche, con l’inconfondibile sagoma della villetta a stagliarsi sotto il cielo stellato e nello spazio all’aperto, teatro di diversi e sciagurati “schiuma-party”, cui si accedeva facendo la fila dal vialetto laterale con l’insegna e un’orrenda fontana a ricordare una gigantesca forma di ricotta – L’Embassy! che non avevamo bisogno di nominare espressamente. Lo chiamavamo “Il Locale”, anche se pronunciavamo “Illocale”, tutto attaccato. Non perchè fosse il luogo che ci ospitava regolarmente il sabato sera: tutt’altro. Era una questione di rispetto per la fama che lo accompagnava da sempre, al di là del tipo di musica programmata e della clientela, l’una e l’altra detestate; e anche perchè in ogni caso a tutti, tra noi, era capitato di “lavorarci” più o meno assiduamente. Ci piazzavano alle uscite di sicurezza, e dovevamo badare che per tutta la notte nessuno ne sgattaiolasse fuori. Anche se non avevamo un fisico appropriato, cioè dissuasivo nei confronti della compagnia della pasticca, alla fine la cinquantamila guadagnata al mattino dava pur sempre una certa sensazione di dovere compiuto: per cui mollavamo a noi stessi una metaforica pacca sulla spalla, certi di aver contribuito a modo nostro alla produttività del Locale.
Il primo a ricoprire quel ruolo di membro “spurio” del servizio d’ordine, aprendo la strada agli altri, fu Pietro il Capo, detto anche, scimmiottando la terminologia fantozziana dei biglietti da visita, “Uom. di Pagl.”, perchè sfoggiava una gamma espressiva davvero minimale. Una sorta di poster ambulante, per dirla tutta: il massimo di cui era capace era una risatina peraltro sforzatissima, composta di non più di tre “ha!” in falsetto prima che la faccia gli si ricomponesse nella consueta fissità. Una notte il Capo fu onorato della visita dei suoi compagni di scuola, nell’ultimo anno, a qualche mese di distanza dalla maturità. Li aveva messi in lista per un sabato in cui nel Locale era prevista una sorta di serata a tema su – diciamo così – “l’alienazione prodotta dalla modernità”, o qualcosa del genere, e ora la marmaglia degli amici stava tutta addossata al bancone del bar al piano di sopra, dal quale comunque era possibile ammirare uno dei siparietti artistici che, sulla pista, inframmezzavano le selezioni musicali.
Le luci immortalavano un tizio trasandatissimo e in canottiera, sprofondato in una poltrona casalinga a fissare un vecchio televisore che mandava rumori di interferenza assortiti. Di colpo irruppe una tizia, vestita tipo “l’unica-scena-che-si-ricordi-del-film-Luna-di-Fiele”, a strofinarglisi contro (al tizio, non all’apparecchio) in un modo che avrebbe convertito anche un Amish, ma che nella finzione scenica del Locale non sortiva effetto alcuno: il telespettatore, infatti, non si spostava di mezzo millimetro. Ciò indusse un altro gruppetto di spiritosi, in lontananza, a cantare “scemo, scemo”, all’indirizzo del figurante in poltrona, cosicchè i buttafuori, quelli veri, con zelo degno di miglior causa intervennero a zittire gli improvvisati coristi sotto minaccia di espulsione dal Locale – addirittura. Fu in quel frangente che Il Capo, reduce da un giretto di ricognizione, notò tra i ragazzi al primo piano la nobile sagoma di Nora, la schiena appoggiata al bancone; Nora, si, come la Barnacle, la donna in onore della quale Joyce fantasticava le peggiori porcherie. Nora, per molti aspetti, era IL Corpo, articolo determinativo e C in maiuscolo. Poteva passare inosservata quanto ad altezza, poi ti soffermavi e notavi che si trattava di un’opera architettonica in cui tutti gli elementi, abbondanti ma ottimi, erano perfettamente bilanciati l’uno con l’altro. E mai delle sembianze del genere avrebbero potuto ingenerare idee più sbagliate sul conto di una persona, perchè Nora era creatura non certo bigotta, ma di candore ed educazione irraggiungibili, anche se non c’era parte di lei, dall’inizio alla fine, che non desse l’impressione opposta a un occhio inesperto e superficiale.
Il Capo conosceva Nora quel tanto che gli bastava per raggiungerla al bancone del bar e piazzarsi nell’unico spazio libero, accanto a lei, ricevendo un cenno di saluto. Guardò per qualche secondo con finto interesse i figuranti del piano di sotto, ma la coda dell’occhio era fissa su Nora. Non c’era niente da fare, pensò: lei era semplicemente lì a bere un chinotto, beata stellina; ma ogni singolo gesto di questa operazione – dal tenere sollevato il bicchiere al reggere la cannuccia cui poi appoggiava le labbra; dalla contrazione delle guance durante il sorso alla lieve chiusura delle palpebre nella degustazione – tutto, dicevo, sprigionava una sensualità quanto più involontaria, tanto più irresistibile. E, infatti, il Capo non resistette. Allungò il mento verso di lei, che capì e gli porse l’orecchio senza staccare lo sguardo dalla messinscena sulla pista al pianterreno. “Di’…” le fece il Capo, indugiando su quel monosillabo come per farle capire che stava proprio tirando in ballo lei, e non per chiederle l’ora. Quando fu il momento di scoccare la domanda, chiaramente il Capo era Guglielmo Tell e Nora la mela piazzata sulla testa del figlio.
“E’ vero che tu sei La Zozza?”
Un altro tizio, sempre lì accanto, sentì e non potè trattenere il mojito che gli uscì scoppiando dalle narici, come per effetto di uno starnuto. Il Capo, invece, “Uom. di Pagl.” come al solito, restò in attesa della risposta, chè il momento era grave. Nora, per parte sua, aveva strappato sé stessa via dal tempo e dallo spazio. Si girò lentamente in direzione dell’interlocutore e lo fissò. “Zoè…” disse muovendo lievemente la testa, e atteggiando la bocca, quella bocca!, in una smorfia che era un po’ sorriso e un po’ stupore. Nessuno l’aveva mai apostrofata così; e con quella noncuranza, poi.
“…Ma ti zembra?”.
Il fatto avrebbe potuto dare vita a mille altri sviluppi invece dell’unico che ne seguì, ovvero il Capo ancora di guardia allo stipite di competenza, e Nora sempre alle prese col suo chinotto. Ma la sventurata, come scrisse Quello, aveva risposto. E la sua sorte ne fu segnata di conseguenza.

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