M. (un frammento)

(Si tratterebbe di un baluginio residuo e tardivo, ma tant’è).

Ci si andava perché te lo proponeva l’amico pataca, quello tradizionalmente più incontenibile, irrecuperabile, ma anche imperscrutabile tra tutti: ”Andiam nel pub di M.” esortava una sera in mezzo alla settimana, ché di venerdì e sabato si cercava tutti di avere di meglio da fare.
(N.B.: quella lettera puntata in realtà prelude a un soprannome che non mi azzardo a scrivere per intero perché comunque non vivo a San Paolo o a Città del Messico ma in un borgo selvaggio. Sono un buffone? Ebbene sì, buffonissimo).
“L’idea non mi convince” si diceva la prima volta, dopo la sommaria descrizione del luogo di destinazione.
“Dai, vieni”, era la replica, “non c’è nulla di cui preoccuparsi, poi ti devo parlare di una cosa delicata e non conosco un posto più tranquillo”. E ci si andava dunque perché l’estensore dell’invito sarà stato irrimediabilmente pataca, ma anche vittima di cronici attacchi di malinconia sentimentale. Così si finiva là per una mera questione di fiducia amicale, e inoltre la riservatezza era davvero garantita – il pub di M. pareva proprio essere frequentato dai classici quattro gatti e nemmeno tutti assieme. “Però attenzione” era l’ultimo avvertimento, ”non azzardarti a chiamarlo M. là dentro: è il suo nome d’arte”. Quale arte? Lasciamo perdere.
Da M. ci si arrivava in due su un booster (come in uso alla beata gioventù scapestrata), facendo un buon tratto di strada contromano perché l’amico pataca che scarrozzava si era già scolato tre pinte di birra rossa per i fatti suoi; oltretutto la patente a punti era di là da venire e certe fattispecie erano ancora oggetto di oblazione. Si trattava né più né meno di un buco di pub con le panche di legno, di fronte a una sala giochi; era l’epoca in cui queste ultime pullulavano ancora e solo di videogames, mica di videopoker e mangiasoldi di natura varia. M. salutava: un omone con i capelli castani lunghi e gli occhi azzurri. Ci si guardava attorno, e in effetti non si trovava nulla di insolito: il cameriere era un nipote dello stesso M., occhialuto, dall’aria compita e regolarissima, cui facevano da contraltare tono di voce e  movenze del gestore.
M. prendeva le ordinazioni, magari adocchiava addosso a qualche altro cliente una t-shirt sgargiante a rievocare paradisi esotici e domandava garrulo: oh, sei davvero stato in Florida? non riuscendo così a distinguere un souvenir autentico da una semplice maglietta del mercato. Arrivata la birra, l’amico di solito tanto ridanciano sfogava del tutto al dirimpettaio l’amarezza: non ne posso più, c’è una ragazza che mi fa morire, lei però non mi considera, mi sento bloccato, non so che fare. L’interlocutore, messo alle strette, era tentato di replicare qualcosa come: “…E tu mi ha portato qui per raccontarmi queste idiozie da scolaretti?”, ma per quieto vivere farfugliava che insomma, alla fine a nessuno è vietato buttarsi e provarci, nella vita. Il dialogo ben presto si esauriva. L’amico si passava una mano sugli occhi e, lasciata a metà l’odiosa Murphy, riconosceva che l’alcol non era in grado di lenire i dolori del cuore. Dopo tre pinte e mezzo di birra, se ne accorgeva. Bravo pataca.
M., da lontano, captava tutto. Arrivava con passo felpato e si aggregava, l’aria premurosa. L’amico si scuoteva un po’, cambiava faccia, gli chiedeva: allora, come ti va? E M., dopo il bene di circostanza, riferiva di un paio di sue avventure qui non descrivibili. Si provava ad abbozzare: eppure, non lo fregavi. All’improvviso diceva al sofferente: non me la racconti giusta, spiegami cos’hai.  L’altro allora si decideva a vuotare il sacco una seconda volta, ma non riuscendo a compiutamente esprimere il “dramma” personale. M., infatti, ascoltava roteando la lingua sulle labbra; l’amico pataca (pentito) continuava il discorso, ridacchiando ogni cinque o sei parole; la solennità era ormai andata a farsi friggere.
M., sentita la storia, scuoteva la testa: ormai era troppo tardi per porgli freno. Diceva: ”No, non ci siamo. Mi fai parlare coi tuoi? Devo chiedergli se posso farti da tutore, così non va”. L’amico rabbrividiva alla sola idea, ma M. aveva preso la ruzzola. “Ascolta, io conosco un rito d’amore per convincere quella ragazza. Ti interessa? Bene. Però…” e qui diventava confidenziale “…però mi devi portare due paia di tuoi indumenti intimi. Usati, s’intende.”. Al che, sorpassati i limiti, l’amico firmava la propria resa. Certo, come no, il rito. Inutile opporsi con un “ti ringrazio, lascia stare, non fa nulla”, magari sperando di arrestare il flusso delle susseguenti porcate. M. continuava a sibilarle a fior di labbra; l’amico pataca guardava la bottiglia e se la rigirava tra le mani, all’apice dell’imbarazzo. Però ridacchiava, di nuovo. E al cantinero, che aveva già raggiunto il suo scopo, probabilmente importava solo questo.

….Uh, siete ancora lì?
Grazie per l’attenzione, siete fantastici!

6 pensieri su “M. (un frammento)

  1. C’è, si sente, il velo. Di vergogna, imbarazzo, reticenza. Rispetto forse anche, ma più di tutto imbarazzo. Per essere lì, così vicino a questa diversità. Il racconto la trasmette bene questa sensazione. L’ambiguità, la curiosità mal frenata (curiosi, hai ragione), infine vittoriosa. La birra da M. era un’altra esperienza, da fare.

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  2. Il lato curioso – ma questo chi legge può solo velatamente intuirlo – sta anche nel fatto che il soggetto sofferente non soffrisse per faccende amorose e dunque considerasse queste ultime talmente eccezionali e particolari da scegliere un luogo altrettanto eccezionale e particolare dove parlarne (e infatti, nelle serate “ordinarie” lui da M. non ci sarebbe andato neanche trascinato in ceppi).

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