Villa Maria (lascia che sia)

E’ proprio il punto in cui qualche mese fa, verso mezzanotte, ho raggiunto correndo per duecento metri a perdifiato un tizio in bicicletta, sulla faccia i cazzetti tatuati e nelle orecchie la trap d’ordinanza, riuscendo a restituirgli un portafoglio che lui nemmeno si era accorto di aver perso pedalando. Riparto da lì, dove il Corso d’Augusto si interseca con Via Ducale, un budello, anzi un tubulo renale dove è stato convogliato l’intero traffico cittadino dal Centro al resto della città, con somma gioia dei residenti. E’ il momento in cui si realizza, per un frammento di secondo, quello che chiamo “effetto lunare”. Al tramonto, il Centro storico mi brulica alle spalle e guardo davanti a me come se avessi un paraocchi equino. Di là dalla circonvallazione (che detta così sembra “Sulle strade di Sanfransico” ma è una striscia butterata in cui fa fatica a passare un Ducato) esiste soltanto l’imbocco di un ponte romano, che una fasullissima prospettiva rende in lieve salita, sufficiente per illudermi di nascondere dalla vista il Borgo San Giuliano, dall’altra parte. Il vigile blocca il traffico e attraverso piano, godendomi il più possibile l’inganno che mi preconfeziono ogni volta, quello di intravedere soltanto le pietre più o meno originali o rabberciate del ponte. Mi fermo all’altezza dell’arcata centrale lato valle e mi ci affaccio, sollevo un po’ la testa, sembro un bambino che cerca di vedere cosa ci sia al di là di un balcone: ma nel mio caso lo so benissimo e dunque ogni inganno svanisce, mi cade il paraocchi e ricompaiono gli altri punti cardinali. Torna il Parco Marecchia a Ovest, che nei miei ricordi non vedo verde ma bianco per via di una nevicata durante la quale lo percorsi assieme ad altri amici fino ad uscire dalla città: spuntammo sulla Statale e meno male che a fendere i fiocchi nelle tenebre passò Daniele, il cui abitacolo stipammo ben oltre i limiti di legge e della fisica. A est l’invaso d’acqua che prosegue sotto al Ponte dei Mille subissato di traffico, fino al mare. A nord la parte più vecchia del Borgo, i cui abitanti non hanno più la fierezza di domandarsi, come una volta: “Ma cosa ci ha mai dato a noi, la città?”. Ma la mia stella polare sta in un angolino: a nord est, se proprio devo precisare. Brilla all’interno di una costruzione che stona alquanto con il panorama, ma del Borgo è una sorta di roccaforte, ne innerva il cuore stagliandosi a ridosso delle stradine più strette, di antica pertinenza dei pescatori, e si estende come un avido polipone fino alla strada che delimita l’altra parte del quartiere, Via Matteotti. Ogni finestra della facciata che dà sul Borgo corrisponde a una stanza della clinica (di quello trattasi), ma una, cioè proprio l’ultima dell’ultimo piano e più vicina al mio punto di osservazione, brilla di una luce speciale, su cui mi concentro mentre sono appoggiato all’arcata centrale del ponte romano. Dietro quelle imposte mi salutò per sempre il fornitore maschile del mio patrimonio genetico, e cosa devo farci: la gente ha luoghi deputati alle commemorazioni; lui non volle lasciare tracce per l’incombente e quindi devo (voglio?) arrangiarmi così ogni volta che transito, e succede molto spesso, visto che di fatto sto tornando a casa mia, all’imbrunire o a buio calato. Il niente che gli dico assume forme diverse, ma si conclude nella stessa maniera: “…No: in questi anni, per ciò che riguarda me, non sono sopravvenute ragioni che ti avrebbero magari indotto a resistere sul pianeta un po’ più di quanto tu sia riuscito o ti sia sentito. Una cospicua parte dei viventi si gode un simulacro di serenità più o meno guadagnato o meritato: magari ci si è solo imbattuta per una sorte benevola e ne ha approfittato. Gli altri restano sullo sfondo, non giocano a padel, affrontano il fegato grasso, le viscere gonfie, l’essere tra coloro che con l’età peggiorano dentro e fuori e non susciteranno invidia né si sentiranno mai dire “ti trovo bene”: ma non può che essere così e guai a saltare dall’altro lato della trincea, non si può sconvolgere l’equilibrio su si regge l’esistenza, sono le parti del gran spettacolo assegnate da uno spietato, invisibile impresario. Superfluo ribadire quale ruolo sia toccato a quelli come noi: il copione per me aveva previsto in più uno scompenso multi organo, come sai; ma roba da nulla. Sì, bando alla banalità, almeno”.
Alle mie spalle, sul ponte romano, il popolo s’impantana per gli autoscatti o sciama indistinto verso il costoso desinare turistico: se ne distingue solo un dito puntato verso il nulla.
“Andò, ma chillo è lu grande albergo?”
Allude al Grand Hotel ma sta indicando il grattacielo, che da laggiù appare piccolo come una pedina per giocare a Monopoli.
Che brutto mondo ti sei evitato, babbo.

Baba

Dice: la fretta è cattiva consigliera. Eccomecheloso. Avevo letto che se mi interessava il loro disco più famoso (magari non il più bello), dovevo ascoltare quello con la copertina del monolite pisciato in quattro punti mentre i musicisti, autori dei rispettivi schizzi, gli danno le spalle e si richiudono la patta sorvegliati da strane nuvole a chiazze. Quindi comprai il 33 giri, lo feci partire sullo stereo e…no, qualcosa non andava: dopo qualche secondo lo fermai. Controllai che il giradischi non fosse sulla velocità 45 giri: non lo era, riposizionai la puntina, riascoltai, di nuovo la alzai. Tolsi il disco, sollevai la guaina in gomma sul piatto, individuai il bucanino, sapevo che nascosto lì sotto c’era un nastrino che scorreva contro un batecchino: se si attorcigliava, tutto il meccanismo ne risentiva e non ruotava come si deve; macché, tutto a posto. Mi arresi, sentendomi un po’ preso in giro ma senza capire perché e in che modo; e dopo soli 32 secondi di ascolto realizzai quant’ero stato coglione. In quelli precendenti non volevo semplicemente rassegnarmi al fatto che “Baba o’Riley” suonasse strano come aveva sempre fatto e sempre farà per omnia saecula.

Sanpa

(Patrizio? Patrignano?)

Il locale ha travi di legno esposte in bella mostra lassù, poco prima che il soffitto si appuntisca; vi si avvinghiano le cordicelle dei palloncini verdi, bianchi e rosso-stinti ed anche le tristi note sulle cozze e le vongole elargite dalla pescivendola che morì di febbre e il cui consunto seno bronzeo toccai anch’io a Dublino quella remota volta, banale e degradato che altro non fui e sono tuttora. I musici irlandesi finiscono per somigliarsi un po’ tutti, come per convenzione: coppole in testa, magliette verdi sotto le giacche pesanti dai gomiti rattoppati, facce affrescate da capillari armoniosi come rampicanti. Il barista schizza come una trottola; non condividiamo nulla, anzi, solo il nome ma lì dentro ovviamente può usarlo solo lui che ha un accattivante sorriso siculo per tutti. Per la mamma, che aspetta paziente e impettita la pizza di fronte alla cassa: il figliolo le dà prima il cartone fumigante e poi, un po’ in disparte, un bacio sulla guancia (“awww!”). Per la morosa che staziona davanti alle spine, fasciata a miracol mostrare ma poco entusiasta per via delle lagne celtiche: e in questo caso il bacio non è niente più di un fugace struscio di labbra al congedo prematuro da quel sordido luogo che le assorbe via gli affetti per biechi motivi di lavoro. E anche per me, onorato già all’entrata da slanci culminati nella frase, soffiata all’orecchio: “Se tu fossi donna, come ti limonerei”, cui io replico: “No, eravamo d’accordo che la donna l’avresti fatta tu”. Siedo a lato del bancone, occupandone una porzione appena sufficiente per poggiarci un gomito, di sbieco come piace a me, lo sguardo rivolto ai musici all’opera in un angolo. La domenica sera muore assai dolcemente, come l’intero anno nell’incipit dannunziano. Nella fine della settimana stranamente patisco dolori inediti, si vede che in altri momenti non ho il tempo né i nervi, nel senso di strutture nervose, per provarli; ieri, nel fianco sinistro, avevano come la forma di un dodecaedro per via del fastidio da spigolo puntuto, fisso; oggi di un cilindro, perché si adattano alle mie interiora, roteando con loro, ballandoci su e giù al pari di uno spettro inafferrabile, come anche adesso che le ho accomodate assieme a tutto me stesso sullo sgabello. Accosto al naso una pinta di Rye River Stout che disorienta e intontisce i mali più della Guinness e, mi perdonino i leprecauni tutti, è perfino migliore. “No, mai / mai più farò il vagabondo selvaggio”, ci illude nel frattempo un ritornello marinaro sciorinato dai musici; domani starò bene, mi riprometto invece io, se non altro perché il lunedì sarà brutto quanto volete ma – ne sono certo – porta con sé una poesia che il resto del mondo non ha la pazienza di leggere, figuriamoci di capire. E se non arrivo a dire che è il giorno che più mi assomiglia, è solo per non peccare d’immodestia.

Zio Walt

Direte che denigrare Helloween e celebrare San Patrizio sia contraddittorio. Sì, lo è. Va beh, date per letta la citazione di Whitman sulle contraddizioni. Con l’unica differenza che io contengo sì moltitudini, ma di pinte. Ah, ciò che reggo in mano è whisky (Lady Mezzatazza apprezzerà), con buona pace della Guinness che in lattina casalinga non rende.

Questo spiega delle cose

1997, quell’appuntamento al bar lo ricordo ancora.
Lei la ricordo meno, in realtà (e sì che mi era seduta di fronte), ma abbastanza per riportarne qualche battuta.
“Sai, vorrei un uomo capace di farmi ridere”
Io: “No. Tu non lo vuoi e nessuna lo vuole davvero se non per trastullarsi dieci minuti, per poi buttarlo via come un burazzo sporco dopo esservi asciugate le mani”
Lei, incurante: “Tu che musica ascolti? Io tutta”
Io, spulciando i residui di zucchero in fondo alla tazzina: “Altra balla. Nessuno lo fa”
Lei, con incurante orgoglio: “Sai cosa mi piace? ‘Breath’ di Midge Ure, hai presente?”
Io, gridando alle mie spalle: “CONTOOOOO!”
Mezz’ora dopo ero già steso sul mio candido lettino con questa nelle cuffie.
“Tutta la musica”. Tsé.
(…E però sì, questo spiega delle cose. Che ovviamente nessuno ha chiesto).

In apertura la cassa 4, dlin dlon

Disomogeneità e incoerenza al potere, almeno alle 11 del mattino, poi il mondo si arrangi.

Ora che è arrivato marzo, può dirsi individuata un’altra linea di continuità (oltre alle umane tragedie) con gli anni precedenti. Ovvero: gli esemplari maschili anonimi, timidi, solitari, privi di patrimonio cospicuo, che un bel giorno alzano il naso e fanno colpo sull’esemplare femminile all’apparenza inavvicinabile e invece tanto alla mano da sputare nella loro direzione…ecco, esistono solo nelle canzoni di Pezzali. Per cui si avvisa la gentile clientela che le canzoni di Pezzali NON hanno nulla a che fare con la vita reale. Grazie per l’attenzione, in apertura la cassa 4, dlin dlon.

Ripensando al sabato sera medio-tipico, ovvero uno qualunque, alle ore 22 circa.
Le persone normali:
“Lunedì ho quella call con Dubai, meglio che domani dia una guardata ai documenti”
“Vado a dormire che alle 6 sono a camminare, alè!”
“Amore, ho scelto un paio di colori per la cameretta del bimbo, andiamo a vedere un lettino?”
Io:
(Dopo essermi imbattuto in Animal House sul canale 27, con gli occhi impastati e il labbro pendulo mi metto a cercare su internet se quella che si scolò John Belushi in otto secondi era una bottiglia di tè o di whisky vero, per poi arrendermi alla disperazione profonda una volta constatato che il mondo ha trovato modo di dividersi e litigare anche su quello).

Dico a te, pregiatissimo barista. Che senso ha prepararmi il cappuccino tenendo l’occhio a un millimetro dalla tazza neanche fossi alle prese coi meccanismi di un orologio antico, e armeggiare per due minuti con il bricco in modo da istoriare la schiuma con la perizia di un miniaturista ma ottenendo la raffigurazione di un accidenti che non so cosa dovesse essere ma dopo due secondi diventa falliforme; ecco, che senso ha tutto questo se poi mi porgi il tutto non reggendo il manico ma i bordi, con polpastrelli il cui stato igienico mi costringe a portare le labbra a una porzione di tazza da raggiungere contorcendo il braccio, per non ustionarmi ed evitare le tue impronte, e producendomi in un numero acrobatico degno dell’opera di Pechino?

Per finire: alziamo decisamente il livello di questo posto.
Appena ti ritrovi a fare due chiacchiere con la persona giusta, interrompiti all’improvviso a metà del discorso, guardala dritto negli occhi e di’: “Cosa c’è che non va?” Dillo in tono preoccupato. Quella dirà: “In che senso?” E tu: “Qualcosa non va. Si capisce. Che cos’è?” E quella ti guarderà sbigottita dicendo: “Come fai a saperlo?” Non si rende conto che c’è sempre qualcosa che non va, in tutti. Spesso più di una sola cosa. Non sa che tutti vanno sempre in giro con qualcosa che non va e sono convinti di fare un grande sforzo di volontà e di controllo per impedire agli altri, che secondo loro non hanno mai niente che non va, di accorgersene. Le persone sono fatte così. Chiedi di punto in bianco cosa c’è che non va e, che decidano di vuotare il sacco o neghino fingendo che sei fuori strada, ti considereranno intuitivo e perspicace. O ti saranno grate, o si spaventeranno evitandoti a partire da quel momento. Due reazioni che hanno una loro utilità, come vedremo. Puoi giocartela come meglio credi. Funziona il novanta per cento delle volte
David Foster Wallace, da “Il re pallido”

Vecchi giapponesi ad alta quota

L’idea di quanto sia bello guardare dormire qualcuno che ami l’ha nobilitata Garcia Marquez nel racconto in cui, a bordo di un volo, si ritrova nel posto accanto al suo, addormentata, una sconosciuta di principesca bellezza. Lui ovviamente, per uno strano gioco di prenotazioni, cancellazioni, scelta di numeri all’imbarco e circostanze funzionali alla narrazione, non doveva nemmeno sederle nei paraggi, ma approfitta dell’occasione per – cito dal testo – “fare il vecchio giapponese ad alta quota”, sì, perché una scena analoga l’aveva, ancor prima di viverla e scriverla, letta in un romanzo nipponico in cui tizi danarosi traevano piacere giacendo, loro svegli, a un palmo da ragazze appositamente narcotizzate dietro esborso di lauta somma (i soliti zozzi pervertiti, ‘sti giapponesi; tra occidentali siamo più indulgenti). E se quelli provavano siffatta estasi a pagamento, figuriamoci quando può accadere per gentile intercessione di una sorte benevola. Sotto le coperte mi svegliavo prima anche solo per sentire i suoi sospiri, venati da uno sbuffo d’insofferenza, da bimba imbronciata, ogni volta che cambiava il fianco su cui dormiva. E quando, così facendo o mettendosi a pancia in giù, si trovava voltata dalla mia parte, nella penombra mi fissavo su quel che non restava sprofondato nel cuscino: il naso, la palpebra da elfo, una corona di capelli arruffati ma non troppo, un gomito scoperto giusto per sostenere il tutto, e d’estate un accenno di deltoide nudo. A un certo punto un respiro più profondo dei precedenti movimentava quell’istantanea, entrambi gli occhi a fessura mi inquadravano, la mano che era rimasta nascosta si palesava, si allungava verso di me e mi accarezzava il volto, dalla tempia alla punta del mento, mentre il profumo del sonno si dissolveva lieve. “Sei qui”, credo intendesse, né più né meno. Ecco, il mio è un punto di vista distorto e semplicistico. Ma ogni volta che mi imbatto nelle lugubri cronache quotidiane, privo come sono della necessaria sensibilità per analizzarle e commentarle, mi torna in mente quanto sopra. E non mi proclamo migliore, non sono mai stato un bravo ragazzo in nessun senso, non dico “io non sono come loro” perché siamo tutti, noi dai cromosomi xy, sulla stessa barca e gravati da responsabilità passiva solidale (in senso giuridico beninteso, non che “bisogna essere solidali con”). Concludo soltanto che mai come in quei frangenti mi è parso che la mia vita avesse senso; non “un minimo” di senso, ma l’unico possibile. E il fatto che ad altri non importi nulla non dico di perdere, ma di soffocare tutto questo quando l’esistenza gliene fa dono, beh, mi fa chinare la testa, sconfitto, per il niente che conta. Scusate, a volte il sabato mi è gravoso. Da domani torno a parlare di pernacchie ascellari.

Oviesse

Mi chiedono: e tu, tu che sei…no, non certo diverso ma anzi, il solito vile maschio di rinogaetaniana memoria, come ti poni nei confronti delle donne, in questi tempi bui e grami? E io: verso tutte non lo so, dipende. Per esempio conosco una Nadia e una Natalia, e gli voglio bene anche perché…voi come pronunciate quei nomi? …no, sbagliato. E mica lo dico per dire che al mondo, anche se loro due sono uniche, per me ci sono solo Nadíe e Natálie, con quegli accenti; perfino la Comaneci, perfino la Ginzburg. Che ne sapete voialtri, del resto? Sarete poi voi a sbagliare, mica io.


Lo riconosco: ho più di un problema con l’Italiano di base e sono a mia volta duro di comprendonio. Ma vi aaaaamo tutti (come recita quel pistolotto funebre, uno tra i tanti, dei Baustelle) voi che durante una conversazione, sia che mi ammorbiate coi massimi sistemi o con i vostri gargarismi del  mattino, a un bel momento mi rispondete, immancabilmente: “…no, la questione è un’altra” oppure “ma no, non è tanto quello”. Oh, ci risiamo, Valloni eccomi, Amplifon soccorrimi, sentiamo. Poi usate un sinonimo, spostate una virgola, invertite l’ordine di un paio di frasi, fate una giravolta, la fate un’altra volta, coronate il tutto con un sopracciglio alzato e un trionfante “…capito?” e finisce che nella sostanza avete detto la stessa cosa che intendevo io. Ma non facevate prima a rispondermi “…sì, ma mi piace più come lo dico io”? Mica mi offendo, sapete?


Girando nei reparti abbigliamento, puoi ancora imbatterti in siparietti che sanno di tempo andato, come la mamma che prima di far provare nel camerino la maglietta al figlio di sette anni, gliela dispiega sul petto, giusto per avere un’idea. Che tenero. Anch’io facevo il modello nella stessa maniera, quando ancora c’era l’oviesse, e non solo su iniziativa della mia, di madre. Anche le altre, momentaneamente prive dei pargoli miei pari età, mi spalmavano addosso il tessuto loro destinato, per regolarsi; e guardavano e decidevano. Ma prima di andarsene, mica si limitavano a ringraziare e salutare, care loro. Scuotevano la testa e dicevano sempre, come se l’informazione fosse determinante per le sorti dell’acquisto e del mondo intero: “Mh, no. Il mio è più magro. Buona giornata”.
E lo ridico tra me e me e glielo dedico anche a  quarant’ anni di distanza: l’anima delli meglio mortacci vostra, ora come allora e per omnia saecula.

Io guardo avanti

Io ce l’ho, un metodo di seduzione.
Lo metto in pratica al momento di uscire dal palazzo dove lavoro, preceduto di mezzo passo da una donna. Lei apre il portone, sta per sporgere un piede all’esterno ma io la afferro per un gomito. Mi guarda malissimo, io taccio e faccio un cenno al marciapiede, dove due secondi dopo, di fronte a noi e impossibili da prevedere, sfrecciano in entrambe le direzioni biciclette e monopattini che lo scambiano sempre per la pista di Indianapolis, da mattina a sera (e non è nemmeno un tratto con la ciclabile).
“Io guardo avanti”, le dico, “per questo scelgo…” beh, quella tal assicurazione. E inarco un sopracciglio che Rodolfo Valentino scansati proprio.
Ma non funziona. Le ho appena salvato quantomeno l’integrità fisica, ma fila via senza smettere di guardarmi incazzata.
Temo c’entri il fatto che non ho tutto tutto il fascino di Alessandro Gassman ma solo il 95 percento, mannaggia.

Acquisti per i consigli

Il libro che qui raccomando contiene e implica una serie di azzardi (valutabili anche come avvertenze).
Il primo: sì, lo so, eccettuati certi autori che si riveriscono a prescindere con “carofiliale” (ehm ehm) devozione, non se ne può più né di libri a sfondo forense né di chi li scrive. Il secondo: anche se non siete tra coloro che esprimono la suddetta insofferenza, avrete di fronte non americanate da “Law & Order” né (tornando entro i nostri confini) penalisti scaltri e insonni e dalle abitudini private migliorabili e che, pur di salvare il cliente magari ignaro e distante ottocento chilometri, si avventurano in indagini difensive spericolate, saltando steccati e strapiombi; bensì soggetti che cercano, con esiti alterni, di arricchire la semplicità delle loro esperienze quotidiane (“Ciao amore, cos’hai fatto oggi?” – “Ho chiesto e ottenuto i termini per deposito di memorie e il giudice ha rinviato a tra sei mesi” – “Wow!”). Terzo e ultimo, tra i tanti che potrei citare: tantomeno vi imbatterete in ambientazioni amene tipo le famigerate librerie aperte di notte dove il gestore disadattato offre all’acquirente distillati pregiatissimi e si incontrano donne improbabili che, approcciando sconosciuti tra gli scaffali, se ne escono con cose del tipo “se non ci fosse tanta differenza d’età tra noi, credo che mi lascerei volentieri sedurre da uno come lei”. Ai nostri tempi te lo ricordi come si chiamava, signò?
Quindi che dire: grazie a voi se, ciononostante, condividerete questi azzardi. Ma almeno uno voglio scongiurarne, per cui mi corre l’obbligo di precisare che personaggi e vicende sono frutto della fantasia dello scrivente.

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